giovedì 20 gennaio 2011

Natale 1970

Quel Natale era arrivata anche la tenda degli indiani. Quella con i simboli di guerra sulla tela, i bisonti, le teste piumate dei capi, le impronte delle mani.

La tela bianca si infilava in lunghi bastoni di plastica che andavano ad incrociarsi alla sommità, dando vita alla mitica tenda indiana.

In quel Natale, pieno di neve e vento, l’apparire di quella finta abitazione scaldava più di tutti gli altri doni.

Al solito, come ogni bambino ricco e fortunato, mi avevano coperto di regali, la maggior parte dei quali avrebbe avuta la mia attenzione solo per una manciata di ore. Forse meno.

Ricordo quel proiettore della Harbert rosso e blu, quello in cui si inserivano le strisce cartonate con i fotogrammi delle storie degli eroi Disney e si proiettavano sul muro. Quanto mi piaceva quel minuscolo cinema trasportabile.

Certo, anche gli altri doni erano belli. Sono tutti belli quando li ricevi. Ma poi pochi davvero rapiscono l’attenzione e la fantasia di un bambino di nove anni. Bello quel “marine” di latta, con la punta del mitra che si accende, però che noia, fa solo e sempre quello. E sempre lo stesso rumore.

Tutte quelle festività erano cosparse di parenti. Si, di quelli che si vedevano giusto una o due volte l’anno. Giusto per Natale, Pasqua e qualche compleanno oltre a qualche rara visita nel corso dei dodici mesi.

Cugini di mio padre, parenti della nonna. Nessuno che avesse bambini come me. E, fatto salvo Carmelo, il più giovane, nessuno aveva un interesse al di fuori di venire a riempirsi la pancia a casa mia.

Si, Carmelo era a parte, un artistoide, un fantasioso e, cosa più importante per me, sorrideva sempre.

A volte arrivava con un pacco misterioso e l’aria circospetta e, avvicinandosi, mi diceva “sssttt…non dirlo a nessuno, questo è solo per noi due..” e aprendo il pacco vedevo che aveva comperato dei blocchi di fogli da disegno e una scatola da ventiquattro, bellissimi, pennarelli colorati.

C’erano sere che ci si sedeva uno accanto all’altro e ci si sfidava al disegno più bello su un argomento che avevamo scelto. Passavano le ore e, mentre gli altri adulti non facevano altro che guardare la tv o parlare all’infinito a voce alta, noi continuavamo a creare i nostri disegni, le nostre rispettive fantasie sulla carta di quegli enormi fogli bianchi.

Ovviamente capivo, alla fine, di aver perso. Troppo più belli erano i disegni di Carmelo. Ma questo non mi dispiaceva mai. Anzi, perdere mi faceva raddoppiare l’impegno la volta seguente. Per me era importante che Carmelo non mi facesse vincere apposta anche se, logicamente, era un continuo perdere.

Perdevo però con il sorriso sulle labbra e negli occhi i colori delle immagini che avevamo fatto sbocciare.

Quella tenda era la mia piccola casa, nessuno poteva entrarci, anche per via delle dimensioni. Lì dentro proiettavo le strisce colorate del proiettore. Ci passavo il pomeriggio bevendo in silenzio le avventure dei miei fumetti preferiti. Ma soprattutto, sognavo. A bocca aperta, con gli occhi che, fissi, andavano oltre quel telo che mi accoglieva. Immobile, muto, vivevo le immagini più incredibili e appassionanti.

Trasferivo me stesso in una dimensione privata, esclusiva, irripetibile. Ero protagonista di storie coraggiose nella foresta della Malesia con Sandokan e Yanez. Forse potevo idealmente quasi toccare quei personaggi venuti fuori dalle mie letture. Esotici animali mi correvano davanti al mio passaggio. Sentivo echeggiare le voci dei tigrotti di Mompracem, gli ordini secchi impartiti per la preparazione della caccia al Babirussa.

Il richiamo della cena mi toglieva da quel torpore cercato e assaporato. A malincuiore tornavo nel mondo dei grandi. Quelli che, secondo me, non avevano fantasia, quelli che non avrebbero mai capito le mie emozioni. Nemmeno a raccontargliele. Si, figurati, raccontare ai grandi che stavo correndo con Kammamuri all’inseguimento di un Babirussa. Non avrebbero capito. Mi avrebbero guardato come un UFO e alla fine avrebbero riso.

Cazzo quanto non li sopporto quando fanno così !! Con una risata ti mettono da parte. Ti escludono dalla loro attenzione come un idiota. Non tentano nemmeno di capire di cosa stai parlando. Dopo tutto è solo un bambino ! E ne dice di cazzate un bambino !

Avrei voluto urlare, reagire, farmi valere ma i tentativi precedenti erano stati soppressi da mio padre con urla disumane. Già, papà. Che alza la voce sempre a sproposito, quando proprio non ce n’è assolutamente bisogno. Che prende in giro gli altri ma poi non è capace di sopportare il più piccolo scherzo o la più innocente battuta. E urla, sbatte pentole per la cucina. Un idiota.

Nelle sere di quel Natale, fredde e ventose, per cena c’era sempre la solita cosa triste. Almeno per me. La pastina in brodo. Accidenti. Per me non c’era nulla di più deprimente. Quelle dannate stelline in brodo, roventi, di dado o di carne. E io adoravo i ravioli al sugo !

Inutile dire che a tavola continuavano i discorsi del pomeriggio. I cari parenti si slogavano il collo davanti a papà a dire di si, ad assentire ai suoi discorsi. Qualsiasi essi fossero. Che avesse ragione o torto non importava. Del resto era lui che offriva vitto e alloggio per tutte le feste. Decisamante era meglio dargli ragione. Sempre.

Sembrava che solo lui avesse tutte le soluzioni, che solo lui avesse capito tutto del mondo. E parlava, parlava, parlava per ore con un ritmo blando e noioso, monocorde. Senza mai dare spazio ad altri. Che due palle !!

Io, appena potevo, ottenevo il benestare per alzarmi da tavola e mi allontanavo in un posto più tranquillo, dove potevo evitare di sentire quell’incessante parlare. E meno male che c’erano dei momenti di pausa dovuti al cibo.

La musica di Carosello mi ricordava che era scattato il mio momento davanti alla tv. Seduto su una delle poltrone di legno e corda del salotto incominciavo a sorridere guardando le disavventure di Jo Condor (che finiva sempre fratturato dal Gigante Buono). Oppure mi incantavo a vedere l’indiano Unca- Dunca che pubblicizzava i prodotti della Riello.

Carosello poteva essere più lungo o più corto, anche se speravo che non finisse mai. Quando anche l’ultimo sketch finiva mi accorgevo che gli altri erano ormai seduti tutti intorno. Sulle altre poltrone e sugli sgabelli del bancone del bar.

Eh si, il bancone del bar. Questo è sempre stato un particolare delle case della mia famiglia. C’è sempre stato un bancone bar. Quasi come se non se ne potesse fare a meno. Quello della montagna era fatto di sughero e legno. E infatti mi divertivo a rovinarne tutta la copertura. Troppo divertente staccare i pezzetti di sughero. E poi, in tutta onestà, mi sfuggiva l’utilità dell’oggetto. Il bar sembrava più un posto di potere. Chi si metteva dietro il bancone meritava l’attenzione di tutti, perché versava da bere, disponeva i bicchieri, metteva il ghiaccio nel cestello, usava il sifone del seltz. Inutile dire che otto volte su dieci, dietro quel bancone, c’era mio padre, nascosto perennemente dietro un paio di occhiali scuri alla Gino Paoli e indossando sempre qualcosa di molto, troppo, ricercato ed evidente.

Nessun commento:

Posta un commento