giovedì 20 gennaio 2011

Garibaldi ed Anita

Non molti anni fa, lungo l’Aurelia che porta da Genova verso la Riviera di Levante, poco dopo l’intersezione di Nervi, vivevano due anziani. Ma non due anziani qualunque. Qualcuno li chiamava barboni oppure, usando un termine più gentile, “senza casa”. Io stesso non sono mai riuscito a dar loro un nome, per quanto questo non fosse importante. Li vedevo là, seduti sul marciapiede, le spalle poggiate al muro del ristorante, eternamente insieme, marito e moglie forse, compagni certamente. Lui avvolto da una sorta di poncho ricavato da una pesante coperta, la barba grigia lunga ad incorniciarne il viso scuro e arso dal sole, dalla pioggia, dal freddo di ogni giorno. Un mozzicone di sigaro perennemente tra le labbra. Un copricapo nero alla Garibaldi calcato fin sulla fronte. I calzoni lucidi d’uso terminavano negli scarponcini logori stringati. Poche cassette della frutta come sedili della giornata e contenitori della loro casa. Lei composta da una serie di indumenti diversi, un fazzolettone, che era stato rosso, attorno alla testa e stretto sotto il mento stringeva i lunghi capelli argento, una giacca di lana lasciava spazio ad un maglione nello strato inferiore. Il tutto avvolto in una coperta in tutto simile a quella dell’uomo. Una gonna lunga con un orlo a balzi. Tutti i giorni della loro vita trascorsi a raccontarsi sullo sporco marciapiede. L’uomo parlava sempre alla sua lei, gesticolava piano, spiegava chissà quali cose, ragioni, motivi. Parlava e, mentre come un fiume in piena faceva andare l’onda delle parole, non staccava mai gli occhi da quelli di lei. Mai nemmeno per un attimo, come se tutto ciò che li circondasse non fosse affare loro. La strada, lo smog, i passanti, il cielo, le nuvole non esistevano. Così almeno mi è piaciuto pensare ogni volta che li ho visti passando incolonnato in micidiali file di rientro in città. E lei che, mai stanca di tutte quelle parole senza fine, lo guardava di rimando nello stesso modo a volte stringendogli le mani. Garibaldi e la sua Anita. Sorridevo per la grande tenerezza che sapevano provocare dentro di me. Quante volte ho pensato e cercato di ragionare come fossero finiti lì, senza nulla, senza nessuno. Chissà cosa era successo che li aveva spinti a quella vita. Più mi capitava di ragionarci e più mi rendevo conto che qualsiasi cosa, qualsiasi ragione anche la più strana o grave, gli avesse portato via tutto non era stata forte abbastanza da portare via “loro”, la loro gioia di esistere insieme. Dormivano appoggiati l’uno all’altra. Quante volte abbracciati sotto la pioggia. Quante volte ad asciugarsi al sole sorridendo. Poco pane nelle mani. Qualche obolo dei clienti del ristorante alle loro spalle. “Non importa cosa è o cosa sarà” – immaginavo si dicessero “ciò che importa siamo noi, per sempre”. Un giorno Garibaldi si ammalò e morì. Seguito fedele dalla sua Anita poco dopo. Questo ricordo è per loro che non ho avuto il coraggio di conoscere.

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